Originariamente pensato come un confronto fra due controtenori impegnati nell’esecuzione di una serie di duetti da camera, il concerto del Monteverdi Festival intitolato suggestivamente “Due alti” si è ben presto trasformato in un evento solistico, a causa di una indisposizione che ha costretto Filippo Mineccia a ritirarsi e Raffaele Pe a puntare su un programma diverso, incentrato sulle pene d’amore e sull’amore non corrisposto, dal suggestivo titolo “Dolci tormenti”.
Da quando Alfred Deller, il cantante per il quale Britten ha pensato il ruolo di Oberon in A Midsummer Night’s Dream, ha emancipato la voce maschile in falsetto da quel ruolo contraltile che essa aveva sempre mantenuto all’interno dei cori inglesi, la figura del controtenore ha avuto una notevole fortuna come interprete di ruoli destinati originariamente ai castrati, anche se ciò non rende nessun cantante moderno erede diretto di Farinelli in ragione di presupposti fisici e tecnici completamente differenti.
La questione è tuttora molto dibattuta ma, nonostante molti ritengano musicalmente poco adeguate simili voci ad affrontare partiture pensate per soggetti diversi, non c’è dubbio che l’effetto complessivo e l’impatto col pubblico rimangano notevoli e che tali vocalità risultino foriere di quel concetto di “meraviglia” così centrale all’interno della produzione barocca.
Il programma pensato per l’occasione da Raffaele Pe incentra la propria attenzione sul genere della cantata da camera, così comune presso le famiglie abbienti dell’epoca, più che sulla produzione di arie destinate al repertorio operistico, presentando tutti autori in un modo o nell’altro legati alla città di Roma.
Si parte con Georg Friedrich Händel del quale, dopo il Preludio della Suite in do minore, viene eseguita la cantata, ascrivibile in realtà al periodo londinese e non a quello romano, Dolce è pur d’amor l’affanno la quale prende la forma aria - recitativo - aria.
Rosa bella nel cui stelo di Alessandro Stradella è, invece, una composizione che ha rivisto la luce, insieme ad altre sei del medesimo autore, solo nel 2012, grazie all’opera di Giulia Giovani che ha ritrovato questo materiale all’interno di un manoscritto della seconda metà del XVII secolo conservato presso la Fondazione Cigni. Ed è proprio all’ambiente veneziano che la cantata rimanda e per questo si suppone che essa risalga ad un periodo anteriore a quel giugno 1677 in cui il suo autore e Agnese Van Uffele, protetta di Alvise Contarini, fuggirono dalla città lagunare alla volta di Torino, località nella quale Stradella troverà la morte per mano di sicari il 25 febbraio 1682.
Dopo l’esecuzione della breve Sinfonia di violoncello solo e basso di Francesco Paolo Scipriani, è la volta di Desiava gioire di Pier Francesco Tosi, autore e cantante molto versatile originario di Cesena, che ebbe grande successo soprattutto nell’ambiente della Londra fra Sei e Settecento. Qui il tono si intride di languore (non a caso Tosi era un grande sostenitore dello stile “patetico”) grazie anche al supporto di un testo ricco di metafore che di per sé può essere già da solo considerato emblematico della poetica di età barocca.
Dedicato a Giuseppe Antonio Brescianello con la sua Partita in sol maggiore, l’ultimo intermezzo musicale è seguito da Lungi dalla mia Clori, cantata di Giovanni Bononcini, e Occhi miei belli di Atto Meloni che concludono il concerto. Occhi miei belli in particolare, come ha ricordato lo stesso Pe, fu composta da Meloni per Maria Mancini Colonna, suo amore clandestino. La donna, nipote del cardinale Mazzarino, fu però disgraziatamente mandata in esilio in quanto sospettata di una relazione con Luigi XIV e per questo sottratta anche alle attenzioni del compositore che nel testo fa un velato riferimento a questo “empio destino”.
Raffaele Pe, ottimamente accompagnato da La Lira di Orfeo, sebbene un poco penalizzato dall’acustica non proprio ideale della Chiesa di Sant’Omobono, ha messo in piena evidenza la solidità dei propri mezzi vocali, sempre ben sostenuti da una elevata competenza tecnica: il timbro è fresco e pulito, il canto di agilità ben legato alla parola ed eseguito con scioltezza e naturalezza, l’emissione perfettamente calibrata in tutti i registri. La linea di canto uniforme, l’equilibrio nel fraseggio e una presenza scenica composta ma al contempo autorevole hanno esercitato un forte ascendente sul pubblico che, al termine del concerto, non ha certo lesinato in applausi, decretando il successo di un mattinée dagli spunti davvero interessanti.
La recensione si riferisce all'esecuzione del 12 maggio 2019.
Simone Manfredini