Turandot | Tiziana Caruso |
Calaf | Carlo Ventre |
Liù | Daria Masiero |
Timur | Deyan Vatchkov |
Altoum | Rino Matafù |
Ping | Domenico Colaianni |
Pang | Saverio Fiore |
Pong | Massimiliano Chiarolla |
un Mandarino | Tiziano Tassi |
Principe di Persia | Raffaele Pastore |
prima Ancella | Maria Silecchio |
seconda Ancella | Giovanna Padovano |
Regia | Roberto De Simone |
ripresa registica | Ivo Guerra |
Scene | Nicola Rubertelli |
Costumi | Odette Nicoletti |
Luci | Vincenzo Raponi |
Coreografia | Domenico Iannone |
Direttore | Giampaolo Bisanti |
Maestro del Coro | Fabrizio Cassi |
Maestro del Coro di Voci bianche | Emanuela Aymone |
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli | |
Coro di Voci bianche Vox Juvenes | |
Produzione Fondazione lirico sinfonica Patruzzelli e Teatri di Bari |
Era il 6 dicembre del 2009 quando il teatro Petruzzelli di Bari proponeva Turandot, primo titolo lirico dopo 18 anni di chiusura dovuta al rogo che ne aveva interamente distrutta la struttura.
A Roberto De Simone era stato commissionato dalla Fondazione un nuovo finale dell’incompiuta pucciniana, sì che l’evento potesse fare di Bari un vero e proprio «centro della cultura mondiale», come ebbe a dichiarare l’allora Sindaco del capoluogo pugliese Michele Emiliano.
Quella Turandot, che prevedeva la regia dello stesso De Simone, non vide però mai la luce. Il veto inamovibile di Casa Ricordi, titolare dei diritti d’autore dell’ultima opera composta da Puccini, impedì la rappresentazione così come concepita dai vertici del Petruzzelli. Da allora questo finale è stato eseguito una sola volta, in forma sinfonica, e mai in forma scenica come naturale appendice al titolo.
Alla ripresa di questa produzione del 2009 si riferisce la recensione che segue lo spettacolo del 8 novembre scorso, dunque con l’allestimento originale, e la regia di De Simone ripresa invece da Ivo Guerra.
Il finale sarà anch’esso lo stesso del 2009, al Mi dell’ottavino che termina la scena della morte di Liù e laddove finisce la scrittura originale di Giacomo Puccini.
È una scelta ormai adottata numerose volte, ma che personalmente mi sento di approvare per la prima volta. Finché almeno non si potrà assistere alla recita con Il “finale De Simone” per il quale questa produzione è stata concepita.
Scena fissa e verticale, con una ripida scalinata sovrastata dal palazzo che ospita nel suo punto più alto il trono di Altum, la scenografia di Nicola Rubertelli è di forte impatto visivo e descrive la visione favolistica che sottende l’idea del regista.
Le masse sono praticamente immobili (tanto da sfiorare la monotonia) e la gestualità contenuta e lenta. Trucchi, acconci e costumi sono firmati da Odette Nicoletti. Sono marcati, iperbolici, smargiassi, a segnalare un simbolismo cui è affidato l’impianto espressivo. Piacciano o meno, sono la cifra di questo spettacolo che fa anche della coreografia, affidata a Domenico Iannone, un significativo agente comunicativo.
Faccio un esempio che possa illustrare quel che intendo: le masse corali rimangono immobili durante la descrizione delle carneficine: «Sarà martirio orrendo! I ferri aguzzi! l’irte ruote! il caldo morso delle tanaglie! La morte a sorso a sorso!», Ping, Pang e Pong mantengono la loro asetticità di maschere, e sono i mimi a danzare evocando con scuri, falci e martelli (no, scherzavo)… e zanne d’elefante, il sentimento di angoscia che dovremmo percepire.
Insomma, uno spettacolo alla fine simbolico, retto su una scenografia “monumentale” e rigorosamente ancorata a decori e colori direttamente importati dalla visione europea dell’esotico e favolistico Oriente.
Se ciò non disturba minimamente il cast che interpreta i ruoli vocali, confonde invece la buca dell’Orchestra, che strafalciona un po’ le sonorità e i colori dell’impasto sonoro, così faticosamente e dettagliatamente descritto nella partitura pucciniana. Le variazioni dinamiche sono anche tentate dal direttore Giampaolo Bisanti, ma è talmente approssimativo l’equilibrio sonoro fra voci e strumenti che si fa fatica a individuarle se non in pochissimi punti. Indispensabile qualche attenzione in più a dettagli che, specie in un teatro come questo dalla fossa orchestrale poco profonda, possono diventare elemento sostanziale.
Bisanti lavora bene sul sincronismo fra buca e palcoscenico, cerca con evidenza di mantenere stabile la concentrazione e la simmetria di tutti con un gesto eloquente e preciso. Ma a sfuggirgli è il volume, spesso anche di singoli strumenti e quel che ne paga è l’equilibrio del suono che potrà migliorare certo, ma solo attraverso maggiore controllo in prova.
I Cori, principale e di voci bianche, istruiti rispettivamente da Fabrizio Cassi ed Emanuela Aymone, non restituiscono sensazione di totale compattezza, ma esprimono un suono ricercato e pertinente nelle dinamiche così come nei colori. Un plauso per la capacità di rappresentare i sentimenti, un impegno per una maggiore sincronicità.
I solisti saranno applauditi meno di quanto abbiano, in realtà, meritato.
Ottimo il Calaf dell’esperto Carlo Ventre. Il ruolo è certamente suo e la voce dimostra ancora un’ammirevole brillantezza nell’acuto. Bene Tiziana Caruso, Turandot. La sua è una Principessa un po’ muscolare, partita con timori eccessivi. Si lasci andare di più. La sua voce regge le difficoltà dell’aria d’esordio, ma la tensione deve scivolarle via prima che se ne possano cogliere le caratteristiche migliori. Più coraggio e fiducia nei propri mezzi Principessa!
A interpretare Altum, Rino Matafù, che ha la sfortuna di cantare sempre in una posizione del palcosenico penalizzata da una scarsa proiezione del suono. Quando lo si sente è intonato e sufficientemente austero, ma il volume lo punisce finanche in maniera eccessiva.
A Timur rende giustizia e personalità il basso bulgaro Deyan Vatchkov. Una voce dal bel timbro e dall’autorevolezza naturale, capace di esaltare il valore di questo ruolo che, nella versione monca del finale naturale, assume un’importanza ben maggiore. Bravo!
Daria Masiero ha il compito di valorizzare il ruolo della schiava Liù quanto questo finale, alla scena della sua morte, implica ed esalta. La voce non sembra avere la preziosità di timbro di altre interpreti, ma la sua capacità di cesellare filati e forcelle di straordinaria precisione le consentono di definire Liù come il più melodico dei personaggi e come la componente più estatica di una rappresentazione che riscuote alla fine il successo che merita.
Di ammirevole spessore drammatico e vocale il Ping di Domenico Colaianni, accompagnato dalle altrettante prove positive di Saverio Fiore (Pang) e di Massimiliano Chiarolla (Pong). Tiziano Tassi nel ruolo di Mandarino, Maria Silecchio e Giovanna Padovano, le ancelle, hanno completato il cast con i loro precisi e validi interventi.
Una Turandot che ci permette di guardare con fiducia alla prossima stagione 2016/2017 del Teatro Petruzzelli che inaugurerà il prossimo 27 gennaio con La Gazza ladra di Rossini.
La recensione si riferisce alla "prima" del 9 Novembre 2016
David Toschi