"Tristan und Isolde" edizione Deutsche Grammophon - 2015 |
|
Tristan | Stephen Gould |
Isolde | Evelyn Herlitzius |
Kurwenal | Iain Paterson |
Brangäne | Christa Mayer |
Marke | Georg Zeppenferld |
Direttore | Christian Thielemann |
Regia | Katharina Wagner |
Regia video | Michael Beyer |
Coro e Orchestra del Festival di Bayreuth | |
edizione | Deutsche Grammophon 2015 |
numero dvd | 2 |
formato video | 16:9 |
sottotitoli | ed/ingl/fr/sp/cin/cor |
codice | 00440 073 5251 GH2, 2016 |
A Bayreuth, l’evento costituito dal centocinquantesimo anniversario della prima esecuzione di Tristan und Isolde coincise con un’ulteriore tappa della storia della famiglia Wagner. Quella che la pronipote Nike paragona a quella degli Atridi, ma a me pare piuttosto riferibile a una scadente soap-opera televisiva sudamericana.
Il binomio Eva-Katharina, iniziato nel 2009 e fin da subito di solidità oltremodo dubbia, si ruppe proprio in quei giorni: con la plateale interdizione a quella da parte di questa di salire la Collina che si continua a definire Sacra ma non si sa bene a chi e perché. Poi furono quelli i giorni in cui i Berliner Philharmoniker si radunarono una prima volta non tanto per eleggere il successore di Rattle quanto per votare a favore o contro Christian Thielemann: il verdetto fu a sfavore, e la dimostrazione che proprio di questo si trattasse la si ebbe quando (smentendo la previsione che ci sarebbero voluti mesi e mesi) l’elezione del successore avvenne un pugno di giorni dopo, con la sacrosanta scelta del numero uno del podio negli anni dieci, il quarantatreenne Kirill Petrenko da due anni direttore musicale della Staatsoper di Monaco. Petrenko aveva diretto a Bayreuth nei due anni precedenti il Ring; doveva dirigerlo quell’anno e anche il successivo: ma di colpo giunse la notizia che Thielemann veniva nominato direttore musicale del festival (con tanto di pacchianata del nome riservato al parcheggio, cosa mai avvenuta), accompagnata dall’altra nuova che Anja Kampe - la compagna di Petrenko - non sarebbe più stata Isolde nel nuovo allestimento.
Cosa mai accaduta in passato, all’apertura del festival si potevano leggere le locandine di quello successivo, e sapere quindi che Petrenko non avrebbe diretto ancora il Ring: lui di interviste non ne rilascia (grande anche in questo), ma il silenzio fu assordante lo stesso. Sicché, mentre il nuovo direttore musicale di Bayreuth vi portava per la prima volta il suo già ampiamente collaudato Tristan und Isolde, Petrenko vi si congedava dirigendo un Ring destinato a restare imperituro nel ricordo di chi ebbe la ventura d’ascoltarlo, dal momento che - tanto per contribuire anch’io alla saga pseudo-atridesca del pollaio bayreuthiano - fu molto, molto superiore a quello del ciclo precedente che aveva Thielemann nel golfo mistico. Un Tristan, comunque, messo in scena dalla pronipote terribile e finito subito in dvd quale primo frutto del nuovo contratto in esclusiva stipulato con la Dg e destinato a documentare - salvo rotture, come si vede sempre di casa laggiù - tutto il futuro del festival.
Ci s’aspettava un monte di cose, da Katharina, dopo i suoi Meistersinger: e se ingiusto sarebbe dire che la collina partorisce il classico topolino, non mi pare proprio ne sorta un elefante. Diverse idee, senz’altro: ma appese una appresso all’altra, dando la costante impressione d’essere collegate solo dal programmatico intento di “fare diverso”, anche a costo d’incongruenze vistose tra quanto si dice e quanto si vede. E d’altronde, nel programma di sala Joachim Karl divertiva il perplesso lettore con la teoria che “è assurdo ritenere che ovunque e comunque ogni cosa debba avere un significato”.
È senz’altro vero che la vicenda narrata da Katharina voglia a tutti i costi essere priva di significati trascendenti e trasfiguranti, col consistente rischio di configurarsi quindi come la storia un filo banalotta di adulterio consapevole e punito, col finale ritorno coatto dell’adultera sotto il tetto maritale. Qualcosa che di prim’acchito potrebbe anche essere accolta con letizia da quanti siano un po’ stanchi della fissa wagneriana dell’amore raggiungibile solo nella morte, compagna in filosofame con l’altra della redenzione sempre e comunque: resta però il fatto che questo dice il testo, e che l’autore sostiene di aver composto la musica basandosi su quel testo. Che poi la musica abbia, per propria intrinseca natura, la capacità di adattarsi a testo e situazioni in teoria diversi, è certo sostenibile e ormai innumerevoli spettacoli riusciti hanno dimostrato quanto sia vago e inconsistente il motto “la musica dice questo e quest’altro”. La musica dice quasi sempre quello che le si vuole far dire, ove glielo si sappia far dire. Ma solo a patto che il testo stesso abbia in sé un contenuto d’ambiguità, su cui chi costruisce lo spettacolo possa lavorare. Ogni tentativo di sbloccare una materia narrativa programmaticamente statica perché fortemente speculativa come quella del Tristan, e farle raccontare una storia riconoscibile e provvista di svolgimento consequenziale, è dunque benvenuto. Ma proprio questa consequenzialità, che formava il nocciolo riuscito dei Meistersinger messi in scena da Katharina, qui viene a mancare.
Di forte impatto, grazie anche alla tecnologia avanzatissima del palcoscenico di Bayreuth, è l’apertura di sipario: non la tolda d’una nave bensì un intrico di scale passerelle e pianerottoli metallici che sembrano materializzare un’incisione di Maurits Cornelis Escher, immersi nella semioscurità e capaci di comporsi e scomporsi come facevano le scalinate di Hogwarts negli Harry Potter. Vi si aggirano, cercando d’incontrarsi, Tristan e Isolde invano trattenuti lui da Kurwenal e lei da un’anziana Brangäne che l’insegue sempre con un velo nuziale in mano (Kurwenal per umiliarla la rinserra dentro quella stoffa, rendendola quasi una vittima sacrificale; e lei alla fine lo lacererà): fuggevolmente ci riescono, e sarà allora un bacio appassionato ben prima della scena del filtro, che difatti non bevono ma si versano sulle mani, finendo poi abbracciati rotolandosi appassionatamente a terra, come accadeva (ma con ben altra efficacia perché ben altro era l’arco di progressione drammatica) nello spettacolo scaligero di Chéreau.
Molto chiaro, e anche plausibile: si amano già, si sono sempre amati, solo le costrizioni sociali li hanno tenuti lontani, e nel rifiutare la falsità offerta sia dal filtro di morte sia da quello dell’amore, affermano il proprio diritto a essere solo se stessi. Però.
Però l’atto è lungo, e corri di qua, scendi di là, sali, poi stai, poi ridiscendi: alla lunga, la faccenda diventa defatigante e soprattutto manca l’adesione col cammino musicale che descrive un’autocoscienza, un chiarirsi quanto “s’avverte” ma non s’ha il coraggio d’accettare. E se lo hai già accettato, il pretendere un filtro per il solo piacere di buttarlo via (però la scena in cui questo avviene, con le braccia di Tristan e di Isolde che si uniscono componendo una sorta d’ellisse, è veramente molto bella) e soprattutto di continuare a parlarne negli atti seguenti, perde il proprio significato letterale ma non ne suggerisce un altro altrettanto chiaro.
Dalla prigione di scale del prim’atto, a un’altra ancor più cupa e claustrofobica nel secondo: una sorta di pozzo nero da cui protrudono molte valve di semicerchi metallici che si chiudono imprigionando chi vi si avvicini.
L’ambiente è di volta in volta rischiarato da fasci di luce provenienti da cellule fotoelettriche, manovrate da Marke e Melot che dall’alto osservano Isolde e Brangäne liberarsi dai lacci che le imprigionano, poi Tristan e Kurwenal scaraventati nella fossa: questo cerca di fuggire utilizzando i cerchi metallici come gradini d’una scala, quello s’avvicina invece a Isolde, trovano un pezzo di stoffa sufficientemente largo da poter fungere da tenda e vi si rifugiano sotto, sempre sotto l’occhio di un Marke impassibile che li osserva come fossero animali da laboratorio o bestie in un circo. “O sink hernieder” cantato volgendo le spalle al pubblico e gli occhi rivolti in alto, come una sfida, mentre le loro ombre si proiettano sulle pareti del pozzo e diventano le immagini di loro due bambini: poi s’accucciano a terra e prendono a ferirsi con le punte d’acciaio, rendendo fisica la ricerca mentale della sofferenza come via per raggiungere l’amore. Marke e la sua anima dannata Melot intervengono, legano Tristan e gli bendano gli occhi mentre Melot getta Isolde a terra strofinandone il viso contro i pantaloni del suo padrone: Tristan cerca di gettarsi ancora verso Isolde per abbracciarla, e Melot lo pugnala alle spalle.
L’ultimo atto si svolge entro un nulla semioscuro, illuminato da fiammelle che circondano il corpo di Tristan vegliato in cerchio dai compagni. Lui parla di Isolde, e questa appare di volta in volta entro triangoli luminosi, ora avvolta nel velo bianco, ora ridotta a manichino il cui capo resta in mano a Tristan allorché questi tenta d’abbracciarlo, poi ancora gli porge una stella, poi una fune, e infine son tutte queste Isolde-fantasmi a circondarlo al sommo del suo delirio. Isolde arriva per assistere alla cerimonia funebre officiata da Kurwenald interrotta dall’arrivo di Marke e della sua banda, che assassinano tutti e poi, col catafalco che hanno provveduto a portarsi appresso, organizzano un funerale ufficiale (verrebbe fatto di dire “per la stampa”): mentre Isolde intona il suo “Mild und leise” finito il quale Marke, che lascia un attimo la propria impassibilità per un largo sorriso, se la porta via.
A una scena piena zeppa di simboli (fino ai colori dei costumi; ovviamente in blu gli amanti, marrone sporco i servi, sgradevolissimo giallo mostarda Marke e Melot), di gestualità forsennata, organizzata come una recita ideata da Marke per sbarazzarsi d’un rivale in amore ma forsanco politico: a tutta questa puntigliosa decostruzione dell’impianto mitico tradizionale con tutta la sua relativa “magia”, corrisponde direzione ancor più puntigliosa nel cesellare ogni contrasto, sfaccettare ogni frase ricercando trasparenze cameristiche all’interno dell’ampia monumentalità dell’imposto generale. Stupenda a sentirsi, senz’altro, data anche la superlativa bravura dell’orchestra. Però molto, troppo edonistica e autocompiaciuta nella dimostrazione della propria onnipotenza esecutiva per andare in profondità: quantunque proprio su questo sacrificio d’ogni lirismo si basi la simbiosi tra golfo mistico e palcoscenico.
Evelyn Herlitzius è una grande artista, di quelle capaci d’un lavoro forsennato sulla parola ma senza farlo avvertire come lambiccato manierismo, grazie anche a un magnetismo scenico dai pochi confronti. Però qui è allo stremo. Quando può lanciare acuti di forza, riescono magari d’incerto confine con l’urlo ma in qualche modo riescono: quando invece sono inseriti entro il flusso d’una linea continua, si rompono spesso, la linea stessa si fessura e sbanda, i suoni striduli si sprecano inficiando così troppo spesso la suggestione generata da un fraseggio comunque sempre vario e personale.
Stephen Gould è senz’altro il Tristan più autorevole degli anni dieci: ampia e robustissima la linea vocale, senza alcun apparente problema di fatica nel reggere la mostruosa lunghezza della parte, sulla quale dà tuttavia spesso la sensazione di pattinare, con una tal quale monotonia d’accento che contrasta singolarmente con l’esatto opposto esibito dalla sua Isolde.
Magnifico Zeppenfeld non solo come eccellente cantante, ma come interprete capace - con un fraseggio cesellatissimo esaltato dalla perfetta dizione - di ribaltare la dolente rassegnazione delle parole che dice in icastica, perfida ironia che muta in mostruosità la tradizionale umanità del personaggio, fatta intendere come conveniente maschera politica: si possa o no essere d’accordo, resta comunque un capolavoro. Benino Brangäne e Kurwenal, ottimo Melot.
2015 DG (2 dvd) 16:9 (Sottotitoli ted/ingl/fr/sp/cin/cor).
Elvio Giudici