"La leggenda dell'invisibile città di Kitež e edizione Naxos - 2008 |
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Fevronija | Tatiana Monogarova |
Vsevolod | Vitalij Panfilov |
Yuri | Mikhail Kazakov |
Kutjerma | Mikhail Gubskij |
suonatore di gusli | Riccardo Ferrari |
Bedjai | Valerij Gilmanov |
Burundai | Alexander Naumenko |
Poijarok | Gevorg Hakobyan |
Paggio | Marika Gulordava |
Sirin | Rosanna Savoia |
Alkonost | Elena Manistina |
Direttore | Alexander Vedernikov |
Regia | Eimuntas Nekrosius |
Regia video | Matteo Richetti |
Coro e Orchestra del Teatro Lirico di Cagliari | |
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"La leggenda dell'invisibile città di Kitež e edizione Opus Arte - 2012 |
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Fevronija | Svetlana Ignatovich |
Vsevolod | Maxim Aksenov |
Yuri | Vladimir Vaneev |
Kutjerma | John Daszak |
suonatore di gusli | Gennadi Bezzukenkov |
Bedjai | Ante Jerkunica |
Burundai | Vladimir Ognovenko |
Poijarok | Alexei Markov |
Paggio | Mayram Sokolova |
Sirin | Jennifer Check |
Alkonost | Margarita Nekrasova |
Direttore | Marc Albrecht |
Regia | Dmitri Tcherniakov |
Regia video | Misjel Vermeiren |
Coro e Orchestra Filarmonica Olandese | |
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La favolosa tavolozza cromatica di quest’opera, che tanto per cambiare suggerì all’epoca paragoni con Wagner, è oggi ben chiaro quanto affondi molto di più - per non dire esclusivamente - nella tradizione musicale russa: proprio in ragione del trascolorare delle sue audacie armoniche in una sorta di velo iridescente, che mira ad accentuare lo splendore dei colori nel momento stesso in cui li scioglie in squisite trasparenze. Senza contare l’atmosfera narrativa. Che guarda senza dubbio alla favola: ma ci guarda confermando quanto ambiguo sia, una volta di più, il concetto stesso di favola. Viene in mente Pelléas. Una tradizione perpetuatasi fino ai giorni nostri lo collocava in un universo poetico genericamente favolistico dipinto coi colori dell’impressionismo. Poi, interpretazioni come quelle di Boulez, Abbado e, a seguire, la maggioranza di quanti venuti dopo, col determinante sostegno di registi intelligenti ha drasticamente spostato l’asse interpretativo verso un espressionismo nutrito di realismo anche molto crudo, agganciato o no al mondo contemporaneo ma comunque lontano anni luce dalle rassicuranti (e noiosissime) tisane impressionistiche dense di saccarina: e l’opera ha assunto di colpo un andamento quasi da thriller.
Sicché l’affrontare Kitež oggi pone, sì, di fronte a una favola dai contenuti morali (come tutte le favole, d’altronde): ma da dove proviene, questa favola? E quali ne sono i simboli cui tali contenuti s’affidano? Ed essi riguardano solo un remoto passato nel quale sogni e miracoli sono possibili, oppure hanno valenze applicabili anche oggi?
Cioè a dire, come sempre dovremmo dire a teatro: siamo nell’ottica del c’era una volta e del mi sono divertito ho pianto tanto? Oppure sto guardando qualcosa che mi riguarda e quindi, anziché la lacrimuccia, può suscitare un più utile pensiero?
Ovvio come a tali quesiti possa rispondere solo lo spettacolo, ovvero la regia. Anzi, no: una regia in piena sintonia con la direzione, giacché una messinscena cruda e realistica sostenuta da un’orchestra evanescente e intrisa di delicate trasparenze, risulterà del tutto incongrua. E viceversa, naturalmente, quantunque il caso inverso si presenti molto meno di frequente.
E dunque. Abbiamo un primo atto celebrativo della serena e pacifica natura, centrato su una fanciullina destinata a diventare santa e quindi tutta dolcezza e poesia, che parla con gli uccellini, coglie fiorellini, ruzza con un orsettino, infine incontra un bel principino - e chi, sennò?- senz’altro vestito d’azzurrino. Possiamo tradurlo in qualcosa di un po’ meno "ino" capace d’interessare un po’ di più (altrimenti è più divertente riguardarci la scena nel bosco della Bella addormentata di Disney, dove i due s’incontrano, scocca la scintilla e si mettono subito a ballare sulle note di Čaikovskij): hai visto mai, in altre parole, che questo stupendo inno musicale alla natura non sia una mera descrizione bensì metafora musicale della stessa concezione morale d’un Tolstoj? Ripensiamo, al riguardo, alle ultime apparizioni di Natasha, mutata da eroina romantica in madre tenerissima; o a Levin e Kitty che nella parte conclusiva di Anna Karenina - quella non a caso sparita nelle trasposizioni cinematografiche perché incompatibili col loro romanticismo da fotoromanzo - controcantano la grettezza della buona società denunciata nella storia di Anna. Né è da credere sia forzatura, questo andare oltre una sia pur sublime imitazione musicale dei suoni di natura. Giacché ben nota è la vera e propria devozione di Rimskij a Tolstoj: comune del resto a tutto l’ambiente culturale autenticamente russo che pertanto sfidava, nell’incessante pellegrinaggio volto a Jasnaja Poljana - la tenuta di Tolstoj - la scomunica comminata nel 1901 allo scrittore. La necessità di non rispondere al male con la violenza; l’ambiguità dei concetti di sacro e profano, facili a mutarsi in sovrannaturale cristiano e naturalismo pagano; la ricerca continua d’una purezza originale, conseguibile solo con una vita condotta secondo i dettami della propria coscienza: tutte cose che possono descrivere benissimo tanto i capisaldi della poetica di Tolstoj (quel Tolstoj che si teneva in contatto epistolare con Gandhi), quanto quelli posti da Rimski in musica con la Kitež. Capisaldi che trovano appunto traduzione musicale mirabile nella grandiosa pagina che apre l’opera.
Poi, il second’atto mette in scena la Kitež Piccola, avamposto rurale della Kitež Grande che resta inaccessibile nelle lontananze boschive (alias popolo contrapposto a detentori del potere; economico e militare). E dunque scene d’ambiente con canti, balli, inni e processioni interrotte dall’arrivo delle orde nemiche che mettono tutto a ferro e fuoco, ammazzano un sacco di gente - ma in genere fuori scena, sennò le signore s’impressionano e dicono “quant’è volgare!” - e torturano i superstiti affinché rivelino la strada per raggiungere il vero centro del potere, ovvero la Grande Città. Vivacità popolare soggetta alla crudeltà d’una cieca violenza frutto di barbarie culturale: possiamo tradurlo in qualcosa di più del semplice folclore? qualcosa che ci tocchi più da vicino? Ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta.
Kitež Grande è protagonista dell’atto successivo, il terzo: quello più problematico. Perché descrive un mondo rarefatto, costruito sull’utopia bellissima e intrisa di cultura del denaro impiegato a fin di bene, le cui difese non possono che crollare davanti alla forza bruta: ma un mondo meritevole d’essere salvato dall’intervento divino, che avvolge la città in una nuvola d’oro allontanandola alla vista dei barbari incivili. Intervento che costituisce l’intero colossale finale d’atto: un’infilata delle pagine musicali probabilmente più belle della produzione rimskijana. S’inizia con l’intensa commozione della preghiera del principe Yuri, seguita dall’uscita dalla città degli uomini pronti all’ultima impossibile battaglia; dopo di che s’allarga un concertato sempre più grandioso (e originalissimo, nel contrapporre una voce di basso a coro solo femminile con voce solista di soprano leggero) nel corso del quale la città magicamente e grandiosamente si dissolve alla vista sugli arcani rintocchi d’una sapientissima campana (e la campana, nella tradizione russa, è la voce di Dio raccolta dal popolo); e si prosegue, senza soluzione di continuità, con la grande pagina sinfonica della descrizione della battaglia.
Possiamo tradurre anche questo, espresso da una scrittura tra le più struggenti, irreali, misteriose che la musica abbia saputo creare? Possiamo ancora concepire - o addirittura accettare - una visione del mondo eletta a principio morale superiore?
Una traduzione immediata di tale grandiosità epicheggiante la può dare la retorica nazionalista. E difatti la diede, in tempi nei quali s’era deciso dovesse essere questo, l’asse portante della cultura sovietica. Noto infatti, benché pudicamente poco citato in Occidente, come Sergej Gorodetskij avesse approntato una nuova stesura del testo, con la quale Kitež non diventava invisibile ma veniva avvolta da spessa nebbia, mentre la superiorità delle armate russe salvaguardava l’indipendenza sconfiggendo le orde tartare e sbattendole fuori dai sacri confini: e nell’ultimo atto Vsevolod, anziché cadere in battaglia, era solo ferito sicché Fevronija convolava a nozze realmente carnali anziché sublimate nella metafora dell’aldilà, in un concetto di happy end da realismo socialista di natura diametralmente opposta rispetto alle intenzioni originali.
Ma può darsi anche un’altra traduzione, ben più pregnante e ben più consona a musica, testo e soprattutto orientamento di Rimskij: traduzione che, pur mantenendo la grandiosità dell’impianto, ne ricerchi non un vuoto trionfalismo ma ne esalti la struggente emotività. Questo senso arcano, questa dorata nuvola di suoni che salgono dall’orchestra ad avvolgere un’utopia etica per preservarla consegnandola a chi vien dopo: non significa forse una rinuncia alla possibilità pratica dell’utopia del Governo Buono e Giusto? Non è più un miracolo, cioè, bensì un allontanarsi, uno sparire. Un morire. Perché se così, allora questa dolcezza infinita s’innerva di denuncia. Quest’impossibilità grida con disperazione di tanto più lancinante in quanto dolcissimo ne è il timbro.
E l’ultimo atto, il ritorno della fanciulla sopravvissuta nella foresta con le sue lezioncine di Vite dei Santi: vede - e ascolta - ben due uccelli del paradiso, Alkonost e Sirin; incontra l’amato principe defunto in battaglia, cantando con lui; e infine ascende nella gloria dei Cieli popolati dei beati della Grande Kitež che ora non stanno più sulla terra, dov’è evidentemente impossibile la loro presenza. Possiamo tradurlo in qualcosa di concretamente terreno, nel quale ci si riesca a riconoscere? Questo è senz’altro più facile. I sogni, come dice la canzone, son desideri: e le allucinazioni assumono forme, suoni, aspirazioni non importa quanto improbabili.
Non univoca, tuttavia, è la strada di chi intenda portare in scena un’opera del genere partendo dall’ipotesi di lasciar perdere folclore e fiaba che ne sono i due nemici peggiori o per lo meno quelli che più ne occultano il significato. Il catalogo video documenta proprio due soluzioni che, anche mettendocisi d’impegno, non avrebbero potuto risultare più antitetiche tra loro.
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2008 Naxos - Tatiana Monogarova (Fevronija), Vitalij Panfilov (Vsevolod), Mikhail Kazakov (Yuri), Mikhail Gubskij (Kutjerma), Riccardo Ferrari (suonatore di gusli), Valerij Gilmanov (Bedjai), Alexander Naumenko (Burundai), Gevorg Hakobyan (Poijarok), Marika Gulordava (Paggio), Rosanna Savoia (Sirin), Elena Manistina (Alkonost); coro e orchestra del teatro Lirico di Cagliari, direttore Alexander Vedernikov, regia Eimuntas Nekrosius, regia video Matteo Richetti.
In coproduzione col Bol’šoj, questo spettacolo celebrava sia il centenario della morte di Rimskij sia la riapertura del cagliaritano Lirico dopo un periodo di restauri: che riprendeva la sua meritoria politica di privilegiare come opera d’apertura un titolo il più possibile desueto. La presente scelta vi aggiungeva il merito di essere opera particolarmente bella, e messa in scena da un regista-culto dell’intellighenzia europea.
Il linguaggio teatrale col quale un regista sceglie d’identificarsi è ovviamente una questione personale: come lo è la sintonia con esso da parte dello spettatore, entrambe indipendenti dalla bontà della sua realizzazione. Che Eimuntas Nekrosius sia regista tecnicamente dotatissimo, non può essere messo in discussione. Può invece esserlo, e molto, il suo linguaggio. Fatto di estrema parsimonia gestuale; di ripetizione insistita fino all’esasperazione d’un gesto o d’un atteggiamento; di sovrabbondanza di metafore e simboli (fin quasi a inglobare l’intera messinscena) quasi sempre aperte a diverse soluzioni, e quindi in definitiva dei quiz, impenetrabili dalle anime semplici com’è quella del sottoscritto. Che, difatti, si dichiara totalmente estraneo a siffatto modo di far teatro: antitetico a ogni racconto lineare - psicologico o fattuale che sia - e costruito invece sulla sua parcellizzazione in miriadi d’immagini costruite dai protagonisti o dai servi di scena, e che scientemente rifiutano di saldarsi in un flusso di riconoscibile continuità.
Fevronija comincia a inneggiare alla natura in un palcoscenico dove stanno solo quattro culle-casette al centro e altre quattro su alte palafitte, il fondale coperto da telo color ocra spento; e canta accompagnandosi con un pianoforte “vegetale” (i tasti sono pannocchie) mentre sul fondo sfilano bambini con caschetto biondo che “fanno cicogna” muovendo un lungo bastone di legno tenuto davanti al naso, poi in compagnia di altri che portano sagome lignee di cerbiatti facendole ondeggiare davanti a sé. Il principe lecca del miele dalla mano di Fevronija mentre un omarino con grande pelliccia nera fa il demente ballonzolando tutto intorno onde comunicare al colto e all’inclita che lui è un orso. Kitež la Piccola è rappresentata da due casette issate su alti pali, e da un enorme mestolo che giganteggia alto al centro della scena per far tanto desco popolare. Sul fondo, il canto del Bardo è scandito da confuse immagini tipo teatro dei burattini, con due personaggi umani dalle teste d’uccello, mentre un tizio fa oscillare una barchetta di legno. I Tartari entrano in scena tranquilli con le loro scimitarre a mezzaluna e i loro pelliccioni, mentre due grulli girano in tondo appoggiati a un disco dorato e tutti gli altri stanno a guardare. Kitež Grande è raffigurata da chiglie rovesciate ma anch’esse alte su palafitte, mentre al di sotto tutti hanno in mano un cuscino azzurro che, posato, diventa lago. I Tartari invasori sgomenti davanti alla città invisibile sono un ammasso chiuso entro un minuscolo corral su cui incombono tante campane di legno. L’ultimo atto, la “vestizione” liturgica di Fevronija, consiste in una ragnatela in cui viene imbozzolata in mezzo ad altissimi fiori blu di carta, con lei che siccome è santa non tocca mai il principino ma si danno bacetti sulla punta delle labbra gettando all’indietro le braccia mentre tutti li circondano girando in tondo, e le chiglie che raffiguravano la città vengono girate rivelandosi icone, a celebrare l’impasto paganesimo-cristianesimo della Russia arcaica.
Nekrosius, al Piccolo di Milano, era riuscito a rendere noiosissimo lo shakespeariano Macbeth (dopo quaranta minuti si era ancora alle tre streghe, coi silenzi che duravano più delle parole e imponevano poi di tagliare dei pezzi alla più corta delle tragedie di Shakespeare): qui, tutti questi simboli simbolini simboletti, queste metafore gestuali e oggettistiche costruite con atteggiamenti innaturali e materiali sapientemente “poveri” nel più puro stile popolar-firmato, tutto questo rende la storia una non-storia di noia teatrale a mio parere incommensurabile.
Vedernikov e la Monogarova ci hanno regalato un Onegin tra i più belli di sempre: qui non riescono a replicare quel miracolo. Lui si trova davanti un’orchestra non più che volonterosa, e soprattutto un coro che, impegnatissimo com’è dalla partitura (di fatto il coprotagonista, accanto al soprano), fa quel che può e purtroppo non è molto. Lei è sempre bellissima ed è un piacere vederla, ma la parte è troppo impegnativa e, specie verso la fine, lo sforzo indurisce spesso la linea e parecchie sono le note stridule, compagne d’una recitazione che per essere all’insegna dell’astrazione è il classico concerto in costume d’espressività oltremodo scarsa. Solide ma rozze le voci maschili, con in particolare Mikhail Gubskij che fa di Kutjerma il solito banalissimo becero nei panni del classico bieco infame, cancellando un personaggio invece tra i più complessi e tormentati del repertorio russo.
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2012 Opus Arte - Svetlana Ignatovich (Fevronija), Maxim Aksenov (Vsevolod), Vladimir Vaneev (Yuri), John Daszak (Kutjerma), Gennadi Bezzukenkov (suonatore di gusli), Ante Jerkunica (Bedjai), Vladimir Ognovenko (Burundai), Alexei Markov (Poijarok), Mayram Sokolova (Paggio), Jennifer Check (Sirin), Margarita Nekrasova (Alkonost); coro e orchestra Filarmonica Olandese, direttore Marc Albrecht, regia Dmitri Tcherniakov, regia video Misjel Vermeiren.
Diametralmente opposto il linguaggio di Tcherniakov, nel suo spettacolo nato ad Amsterdam in coproduzione con Barcellona, dove è stato messo in scena l’anno scorso, e con la Scala che invece ancora aspetta e, ad ogni domanda in merito, il suo sovrintendente glissa sicché non è affatto certo se vi giungerà mai, nonostante - si suppone - debba aver contribuito finanziariamente.
Linguaggio, questo di Tcherniakov, che non è moderno perché veste moderni i personaggi. Lo è perché personaggi e situazioni dai tratti temporali, sociali, storici molto remoti (o addirittura enigmatici come possono esserlo quelli delle favole, e sia pure delle favole a sfondo morale, quindi in qualche modo legati a un periodo storico), lui te li squaderna davanti rendendoteli immediatamente comprensibili nelle cose che dicono, negli atteggiamenti che assumono, nei gesti quotidiani che fanno, nei conflitti che li relazionano tra loro e con l’ambiente sociale da cui provengono. È moderno perché fa teatro moderno.
Dunque al prim’atto Fevronija è in comunione con la natura - vegetale e animale - cui eleva un inno che nella sua evidente sincerità è fervidamente espressivo. Benissimo. Ma la natura non comprende gli uomini? e, con buona pace degli animalisti, essere in comunione con gli esseri umani, specie quelli più maltrattati dalla vita, non è più gratificante che parlare agli uccellini e far ballonzolare un orso? “Amici amatissimi, vagabondi e liberi”; “non si deve aver paura di questo animale irsuto”: in un’anonima, polverosa periferia prospiciente a un campo di grano dove sta una baracca di legno, c’è una ragazza dei nostri giorni che (decisione autonoma o espressione di associazione umanitaria poco importa, e saggiamente nulla ci viene difatti detto) dà da mangiare a gente fuori dalla società. Barboni, vagabondi, chi siano non interessa né interessa cosa li abbia resi emarginati: sotto un cielo assolato che con suprema tecnica pian piano sfuma verso il crepuscolo, in mezzo a spighe che sono il più evidente simbolo del nutrimento, si compie quel gesto supremamente umano che è il dare da mangiare a chi (né uccellino, né orso, né Bambi), non ne ha né sa come procurarselo. Il principe è un ragazzo abbastanza benestante che s’è ferito, e che s’imbatte in questa strana fanciulla impegnata in uno strano compito, se ne sente attratto perché molto diversa, perché con naturalezza lo cura e gli dà anche una maglia pulita: il tutto, mentre attorno i diseredati li guardano, lei continua a distribuire la minestra, lui un po’ l’aiuta.
Non un secondo di stasi. Niente braccio avanti a sottolineare la curva melodica. Sempre un guardarsi reciproco, gesti semplici ma quotidiani, affatto affatto “melodrammatici”: niente Principe Nobile lui e Fanciulla Santa lei. Niente vecchio melodramma, moltissimo teatro. Che se è vero teatro, non è né vecchio né moderno: è teatro, altrimenti non è.
Kitež Piccola: un bar di paese. Al bar vanno tutti, ricchi e meno ricchi. Quindi abbigliamenti moderni ma immediatamente rivelatori di possibilità finanziarie, reali e ostentate oppure pretenziose oppure miserabili che siano. Quindi niente suonatore di gusli (un mendicante suona la chitarra per chiedere soldi), niente domatore di orsi ma solo un amico un po’ più ricco di Kutjerma che ne decanta le lodi istrioniche e lui per mettersi in mostra (e scroccare da bere) fa giochi di prestigio e l’equilibrista di bottiglie, prestandosi poi a sbeffeggiare quella Fevronija che si dice abbia accalappiato furbescamente un pollastro scemotto benestante, e chissà le arie che si darà. Una vera e propria lezione di teatro, l’arrivo di Fevronija con patetico velo da sposa in testa, il suo ricambiare gli sguardi di tutti, il mutare di tali sguardi da sospettosi, altezzosi, da “ma chi sarà mai questa qui”, in interessati, partecipi, commossi: ogni corista un personaggio, un carattere subito identificabile e soprattutto immediatamente comprensibile.
I Tartari: violentissimi, volgari, assassini, stupratori. E perché dovrebbero essere presentati diversamente? perché “basta la musica”? perché “non c’è bisogno di mostrare tutto, basta immaginarlo”? Nient’affatto. A teatro occorre ascoltare e vedere, come da quattrocento anni c’insegna Shakespeare. E poi: perché non far vedere quanto il libretto racconta? Il tartaro Bedjai non dice forse “Nessuna pietà, colpiteli a morte”? E subito dopo “Ah, ma ne resta ancora uno vivo!”? Non significa forse che tutti sono stati ammazzati? E allora Tcherniakov ci fa saltare sulla sedia, perché lui è uno che non ha paura di raccontare la storia esattamente per quella che è davvero: uomini scamiciati, violenti, irrompono spaccando le porte di vetro tra sventagliate di mitra che stendono tutti quanti. Raccapricciante. Ma credibile, se di scena di terrore dev’essere. E le torture a Kutjerma affinché parli? Non sono carezze, sono pugni calci e ferite, che lo lasciano lacero e sanguinante, a guardare Fevronija umiliata e accovacciata su una tavola (agghiacciante, Bedjai che le strappa il velo e se lo piazza in testa mente le agita oscenamente davanti il bacino), a chieder perdono in anticipo perché sa che non può non cedere.
Come Tcherniakov tratta i due tartari Bedjai e Burindai, poi, è un’altra lezione impartita da un grandissimo affabulatore che sa bene come nel caso di due personaggi simili sempre presentati assieme, la reciproca loro differenziazione sia essenziale. E dunque quello è un tamarro tracagnotto peloso pieno di tatuaggi, in canottiera, goffo, nessun gesto che non sia di estrema volgarità; questo è più vecchio, molto elegante, raffinato persino, ma proprio per questo assai più pericoloso e maligno (compare tranquillo, fumando un sigaro ma… porta Fevronija al laccio, costretta a strisciare): e s’invaghisce della ragazza, ovviamente litigando con l’altro che voleva solo farsela, e alla fine dell’atto seguente gli sparerà un colpo di pistola freddandolo senza neppure guardarlo. Adesso, l’atto termina con l’incendio dell’edificio. Diversi pezzi del quale s’inclinano e crollano (ancora una volta, la tecnica posseduta da Tcherniakov è d’assoluta eccezione) mentre cala il sipario su di una scena che di solito è un succedersi di episodi musicalmente bellissimi ma scenicamente di mortale inconsistenza: e qui, abbiamo seguito un action movie senza un solo attimo di rilasciamento d’una tensione fortissima.
Non meno memorabile, apice anzi dello spettacolo, è come Tcherniakov risolva l’impossibile terz’atto.
Kitež Grande è rappresentata da una riunione d’appartenenti a una confederazione probabilmente su base religiosa ma certamente detentrice di potere economico (più che ragionevole pensare controlli una regione petrolifera), asserragliata in un luogo che non identifichiamo subito ma qualcosa ci serpeggia nella memoria vedendo diverse file di poltrone da sala teatrale. Il teatro moscovita Dubrovka. Quello in cui, nell’ottobre 2002, un commando ceceno tenne in ostaggio 850 persone, circa 200 delle quali morirono nel blitz delle forze speciali Specnaz, preceduto dal pompaggio di gas Fentanyl.
Sia chiaro: Tcherniakov non equipara i Tartari né ai terroristi ceceni né alle forze speciali che tali terroristi uccisero a costo della morte di tanti ostaggi. Ci mostra solo un luogo chiuso, probabilmente un cinema o un teatro, impiegato da un gruppo di persone come rifugio in cui hanno ammassato lettini brande e tende. Il collegamento lo fa la memoria di chi guarda, diverso pertanto in ciascuno, dipendendo dai suoi convincimenti o anche solo dalle sue informazioni. È comunque un rifugio, che accomuna un gruppo di persone dalle idee e convinzioni condivise, difese contro una minaccia esterna. E anzi: proprio l’indeterminatezza di luogo, epoca, nazionalità o religione, aumenta il senso di tragica impotenza contro il cieco dilagare della violenza.
Il come Tcherniakov organizza la narrazione chiarendone ogni minimo risvolto, è portentoso. Ci sarebbe addirittura un paggio, che guida Poijarok, il messo del principe destinato a scortare Fevronija e accecato dai Tartari nell’atto precedente (sempre a proposito di violenze da far vedere o meno…): cui compete il lungo racconto della distruzione di Kitež Piccola e della morte di tutti i suoi abitanti. Paggio che canta con voce di mezzosoprano, pertanto en travesti. Sarebbe ridicolo, in siffatto contesto, ma la soluzione è delle più semplici e contemporaneamente delle più efficaci per accrescere l’emozione del momento. Vediamo, sì, un bambino che tiene per mano il cieco con gli occhi che grondano ancora sangue: ma accanto a lui c’è sua madre, e dopo che Poijarok ha comunicato il messaggio degli invasori (“noi massacreremo tutti, uomini e bambini, le donne le daremo in pasto all’Orda”) è lei a raccontare l’incendio e il crollo di Kitež Piccola. Sua moglie e suo figlio? Non ci viene detto, e proprio per questo ci si commuove di più.
Subito dopo, la preghiera corale e la benedizione di coloro che s’apprestano a combattere.
Gli uomini si svestono della camicia per indossarne un’altra candida che li accomuna. Le donne estraggono ciascuna un fazzoletto bianco e se lo avvolgono attorno alla testa come uno hijab mentre cantano “L’ora della morte s’avvicina; ma come poter morire senza prima dirsi addio?”. Immediato, e di sicuro non casuale bensì genialmente suggerito, il rapportarsi di questa scena così organizzata con l’ultima di quella Chovanščina che Rimskij aveva vent’anni prima orchestrato: un parallelismo, e un ricordo subliminale, che mi sembra incrementi la già intensissima emotività del momento.
Tutti si spostano infine verso il fondo, dove un inavvertibile cambio di luce fa scorgere adesso nitidamente diverse file di poltrone proprio quando il coro femminile richiama l’attenzione sul suono delle campane e sul fatto che tutt’intorno “si sparge come un velo luminoso”. E mentre sale il crescendo che sviluppa il motivo delle campane sul trascolorante pizzicato degli archi; dopo che la fanfara legata al glorioso motivo di Kitež s’è spenta in ppp e il coro ha comunicato che “con questi suoni il Signore ci chiama dall’alto dei cieli” significando che la città, e dunque tutti coloro che la abitano, sono divenuti invisibili ai mortali (cioè a dire non sono più di questo mondo): il principe Yuri… spegne la luce!! Genio colossale, questo piccolo folletto moscovita quarantaduenne.
L’interludio che subito segue, descriverebbe la battaglia nella quale i Tartari massacrano tutti gli uomini di Kitež: sensazionale, in termini di utilizzo dello spazio e di gestualità minuta distribuita fino all’ultimo dei presenti, quello che Tcherniakov estorce a ciascuno allorché fa irrompere in quel luogo angusto e immerso nella semioscurità la stessa orda armata vista l’atto precedente.
Nel buio, spariscono alla vista coloro che s’erano seduti sul fondo. È solo dopo la scena a tre Borundai-Bedjai-Kutjerma (conclusa col colpo di pistola che ammazza Bedjai), mentre Kutjerma - liberato da Fevronija - sta per fuggire e i Tartari si svegliano: è solo adesso che, al chiarore dell’alba, il fondo esce dall’oscurità. Il regista Vermejren, sempre eccezionale nel riprendere spettacolo tanto articolato e difficile, qui sorpassa se stesso con una serie di primi piani tutti calibrati alla perfezione sui pesanti accordi che descrivono il montante terrore dei Tartari che s’accorgono solo ora d’aver dormito accanto a una folla di cadaveri sorridenti: “si ascolta un tintinnio gioioso… fuggiamo, prima che capiti qualcosa di orrendo… oh, è grande, è davvero grande il Dio russo”.
Da far tremare le vene ai polsi di qualunque regista, un momento musicale come questo del finale terzo. Ancor più meritevole d’entusiasmo è dunque chi riesca a risolverlo creando una storia collettiva, che riguarda noi tutti chiamati a vivere i giorni nostri. Una storia di sopravvivenza, di reazioni umane di fronte a un estremo pericolo le ragioni del quale ci sono ignote e durante il quale, proprio quando tutto sembra perdere valore, ogni cosa che resta assume il significato di estremo inno alla vita.
Qui, per inciso, alla conclusione dello stupefacente episodio in cui - secondo didascalia - ai Tartari e al traditore Kutjerma appare nelle calme acque del lago il riflesso della città invisibile (con le sei campane fuori scena che, rintoccando diatonicamente nel fluttuante cromatismo dell’orchestra, davvero sembrano venire da un mondo sommerso), sulla partitura autografa Rimskij ha scritto di suo pugno “viva Rebikov!”: ironica scappellata al più famoso debussysta russo, che dell’intervallo di quarta aumentata non risolta - assai frequente in Debussy - aveva letteralmente intriso le sue composizioni, e che dall’alto della propria scienza strumentale Rimskij impiega qui con ben altra conoscenza di causa. E a me pare appunto che analoga scappellata la faccia Tcherniakov nei confronti di quanti ancora vorrebbero rifugiarsi nei tranquillizzanti “c’era una volta” e “vissero tutti felici e contenti” (ovviamente nell’altro mondo, giacché in questo…).
A mio modesto parere, se qualcuno resta indifferente a una scena come quella che Tcherniakov ci fa svolgere davanti; oppure - molto peggio - se ne mostra scandalizzato perché “il libretto non dice così”: costui non solo dovrebbe smettere di andare a teatro perché ne è gravemente allergico, ma dovrebbe smettere d’ascoltare musica perché incapace di sentirne gli accenti che Rossini definiva “nascosti”. Quelli che soprattutto contano.
L’ultimo atto, a questo punto, ci se lo aspetta. No, niente favola mistica, niente ciarlieri e cinguettanti uccelli del paradiso (trasformati in due paciose signore di mezza età, vecchie balie premurose e affaccendate in cucina; geniale), niente salita in Paradiso con tutta la città ad aspettare la vergine Fevronija.
O meglio. C’è tutto: tutti quanti (il bel ragazzo; il di lui padre Principe; Poijarok non più cieco; i diseredati del prim’atto; persino il paggio con la sua mamma) li vediamo riuniti a circondare la ragazza nella sua capanna tra le spighe di grano, attorno a una tavola semplice però ben fornita. Ma è l’estrema allucinazione di una fuggiasca che sulle ultime note si ritrova sola, riversa sulla nuda terra, tra alberi ormai pietrificati. Il giorno è tramontato, e il grano è rinsecchito.
Video, questo, che induce a elevare inni a mo’ di Fevronija non tanto alla natura quanto alla tecnologia che ha reso possibile l’esistenza della videoregistrazione: molti grandi spettacoli potendo adesso sopravvivere non solo nella labile e spesso contraddittoria memoria di chi li ha visti, ma nell’obiettiva realtà d’un documento soggetto a visioni ripetute e analitiche. E anche a ripetuti ascolti: giacché la parte musicale non è in nulla inferiore alla visiva.
Marc Albrecht (quarantottenne; figlio e allievo del direttore George Alexander; assistente di Abbado con la Mahler Judendorchester e all’Opera di Amburgo di Gerd Albrecht, cui non lo lega alcuna parentela), dopo sei intensi anni alla guida dell’Opera di Darmstadt e altri tre alla Deutsche Oper di Berlino, da tre anni era apprezzatissimo direttore musicale sia dell’Opera Olandese che della Filarmonica: e dimostra quanto giustificato sia tale apprezzamento con una direzione maiuscola. Impossibile dire se il taglio marcatamente drammatico impresso all’intero arco narrativo sia frutto oppure no del lavoro comune con Tcherniakov nell’impostare in modo così peculiare la drammaturgia di quest’opera: ma sospetto fortemente di sì, a riprova di quanto utile sia tale atteggiamento al fine di raggiungere un compiuto risultato teatrale.
Il senso panico che pervade l’intera prima scena, vibra dunque di una commozione, di una dolcezza malinconica dall’intensità e fervore magnifici. L’urgenza drammatica che sospinge come un unico serratissimo arco le due scene complementari del secondo e terz’atto (e proprio tale complementarità, che si rivela tratto teatrale decisivo, è quanto di solito manca nelle interpretazioni sia favolistiche sia, ancor peggio, intellettual-simboliste): nei quali la lucida leggibilità dei complessi intrichi armonici elaborati da Rimskij emerge con la perentorietà di chi dopo tutto ha dato della straussiana Frau ohne Schatten una lettura paradigmatica. Ancora una volta, è quanto mai suggestivo constatare come la musica si modelli immediatamente sui diversi significati espressivi che una scena (quando li ha, si capisce) le impone: la dolcezza di una religiosità contemplativa che si credeva connaturata alla grandiosa conclusione del terz’atto, l’udiamo mutarsi in epicedio funebre intriso di lancinante tragicità, senza che nulla ma proprio nulla vada perduto (anzi, più che mai si rivela essere vero l’esatto opposto) in termini di iridescente trasparenza del prodigioso tessuto strumentale. E la conclusione dell’opera tramuta il fervore mistico-religioso della tradizione in straziante utopia spezzata dalla crudezza di una realtà il cui irrompere impiega l’identica festosità che d’improvviso percepiamo cruda, insopportabilmente volgare nel suo negare per l’appunto quella stessa utopia.
Magnifica la Fevronija di Svetlana Ignatovich. Non certo in termini di solida ampiezza di cavata, di forza di penetrazione del registro acuto, e in genere di tutto l’armamentario caro all’ideale vocale stile realismo socialista, quello dove forza, solidità, perentorio entusiasmo erano gli unici parametri validi. Da questo punto di vista, i frequentatori del muro del pianto in memoria dell’antica arte canora hanno materia per stimolare le proprie ghiandole lacrimali. Ma gli amanti del teatro musicale si trovano invece davanti un’interprete di rara sensibilità, che capisce, accetta l’impostazione registica e, col determinante aiuto d’una direzione che sempre la sorregge, ne traduce ogni gesto in accento, in colore, in significato espressivo. Per l’ennesima volta: teatro moderno, l’unico che oggi abbia senso se si vuole che l’opera continui ad avere un senso.
Discorso analogo si può estendere al resto del cast.
A cominciare dal Kutjerma dell’inglese John Daszak, la cui recitazione corporea e vocale forma un tutto inscindibile articolato in una strepitosa ricchezza di particolari. Maxim Aksenov lascia perdere squilli e impennate eroicizzanti trovando anzi mezze tinte di delicata tenerezza che ne rendono il personaggio – ingenuo, irruente, d’adolescente immaturità – tutt’altra cosa dal principino delle fiabe, un “lui” eternamente in sottordine rispetto alla protagonista che è di regola “lei”. Se tutti eccellenti attori e notevoli cantanti sono gli altri componenti del cast, strepitoso è il coprotagonista dell’opera, ovvero il coro. Nel bonus del secondo dvd (uno dei rari a essere molto ben fatti e interessanti), il direttore del coro Martin Wright si diffonde sulla preparazione sia musicale sia linguistica, condotta quest’ultima da un consulente russo che pronunciava lentamente e ripetutamente in un video che ciascun corista aveva nel proprio computer così da potersi esercitare con agio: il risultato è quello che si sente, mentre quello che si vede è la prova d’un gruppo di cantanti-attori non solo di altissima professionalità, ma del tutto convinti, quindi partecipi, quindi strepitosamente espressivi.
Elvio Giudici