Lo scorso 8 febbraio è scomparso a Bolzano il baritono Giangiacomo Guelfi, interprete di spicco della scena lirica italiana del dopoguerra.
Nato a Roma il 21 dicembre 1924 aveva iniziato gli studi musicali nella città natale per poi perfezionarsi a Firenze con Titta Ruffo.
Il debutto in scena avviene nel 1950 a Spoleto come Rigoletto, inizio di un’importante carriera sui maggiori palcoscenici italiani (il debutto scaligero è del 1952) e successivamente anche a livello internazionale (nel 1954 debutta alla Lyric Opera of Chicago) affrontando regolarmente i maggiori ruoli del repertorio ottocentesco.
Guelfi disponeva di un materiale vocale di prim’ordine. La voce era di non comune ampiezza e sonorità, capace di imporsi naturalmente per l’imponenza della cavata unita ad un bel colore vocale. Esempio tipico del gusto di quegli anni, Guelfi emerse soprattutto nel repertorio verista dove la generosità del canto e la robustezza del mezzo vocale compensavano ampiamente la genericità dell’accento e una certa rozzezza espressiva che forse restarono sempre i suoi maggiori limiti. Esemplare in tal senso il suo Compar Alfio nella “Cavalleria Rusticana” di Mascagni, ruolo sistematicamente affrontato nel corso di tutta la carriera e inciso nel 1965 sotto la guida di Herbert von Karajan, giungendo a trovare accenti di dolorosa brutalità e di fortissimo impatto emotivo. Per analoghe ragioni altrettanto memorabile la sua interpretazione di Jack Rance ne “La fanciulla del West” andata in scena al Maggio Musicale Fiorentino del 1954 con la turbinosa direzione di Dimitri Mitropoulos. Sempre nell’ambito dell’opera italiana novecentesca va ricordata la sua presenza in occasione della prima rappresentazione assoluta di “La figlia di Jorio” di Ildebrando Pizzetti nel 1954.
Insieme a quello della “Giovane scuola” anche il repertorio verdiano è stato terreno di successi per il baritono romano risultando tra i protagonisti di storiche produzioni come il “Nabucco” scaligero del 1966 con la direzione di Gianandrea Gavazzeni. In questo repertorio – come nelle meno frequenti prove in ambito belcantista (“Guglielmo Tell” al San Carlo nel 1965, “Lucia di Lammermoor” alla Scala nel 1967 con la direzione di Claudio Abbado) – il suo approccio risulta sicuramente più datato e meno convincente nell’assenza di un approccio stilistico più compiuto e di una linea di canto meno istintiva.
Guelfi è stato uno degli interpreti di punta di una fase storica del canto italiano, nonostante ciò è stato scarsamente considerato dalle case discografiche, ragion per cui la documentazione della sua arte è limitata per lo più ad esecuzioni dal vivo.
Giordano Cavagnino
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